Alcune criticità inerenti l’azione di rettifica (D.P.R. n. 131 del 26/4/1986, artt. 51 e 52) ed il “valore venale” del bene.

Con questo scritto sostengo che l’azione di rettifica prevista dal D.P.R. n. 131 del 26/4/1986 (artt. 51 e 52) non si limita ad accertare il valore venale del bene. Di contro, produce almeno altri due effetti. Da una parte, influenza le dinamiche del mercato del bene. Dall’altra parte, finisce col co-determinare il valore stesso del bene (oggetto d’accertamento) con un meccanismo dialogico ricorsivo.

Questi due effetti (sebbene siano sempre presenti) sono meno visibili durante i periodi di crescita economica. Di contro, diventano palesi nei periodi di crisi (stallo; e/o recessione). In questi ultimi, possono determinare situazioni paradossali nelle quali il venditore, non solo perde tutto il percepito con la vendita, ma arriva a rimetterci maggiori cifre. Questo avviene in quanto, una volta rettificato il valore per ricomputare le imposte indirette, lo stesso è in seguito usato per rettificare il reddito personale del venditore. Quest’ultimo accertamento, basandosi su un atto divenuto definitivo, non può più essere impugnato. Il venditore cosi si trova costretto a pagare le maggiori imposte dirette, con tutte le relative sanzioni (il raddoppio dell’imposta), sul un reddito mai percepito.

Nulla rende il concetto più chiaro d’alcuni esempi.

Esempio: la vendita d’Azienda.

Un imprenditore nel 2010 acquistò un Forno in difficoltà.

Il valore d’avviamento del Forno fu di 180.000,00 euro[1]. Un valore ritenuto assai generoso. L’Agenzia delle Entrate inviò nel 2013 un Avviso di rettifica e di liquidazione nel quale contestò tale valorizzazione. Secondo l’Agenzia, il valore d’avviamento del Forno era di 385.000,00 euro. Senza approfondire le questioni inerenti al computo del valore d’avviamento, ciò che rileva è cosa conseguì.

Sebbene il compratore abbia realmente pagato 180.000,00 euro, ed il venditore incassato quella cifra (costituendo quest’ultima l’intera capacità economica di entrambi i soggetti), una volta rettificate le imposte indirette, le imposte dirette sono ricomputate automaticamente sul queste. Questo comporta per il venditore, dopo aver pagato nel 2011 il 45% d’imposta sul percepito, dover pagare nel 2013 un altro 45% d’imposta sul maggior valore stimato (mai percepito) più tutte le relative sanzioni (il raddoppio dell’imposta).

L’effetto pratico di tutto ciò è che il venditore nel 2010 incassa 180.000,00 euro ed alla fine nel 2013 si ritrova costretto a versare allo Stato 173.250,00 euro d’imposte dirette più 92.250,00 euro di sanzioni. In altre parole, il venditore è costretto a dare allo Stato più di quando abbia percepito dalla vendita!!        

Gli effetti sul compratore sono ridotti. Quest’ultimo ha da pagare solo la rideterminazione delle imposte indirette che prevedono aliquote più basse. Inoltre, per lui, la rettifica diventa solo una presunzione semplice per un accertamento sulle imposte dirette verso la quale può dare prova contraria.

Esempio: vendita di due posti auto.

Prendiamo un piccolo costruttore che nel 2007/2008 (… in piena crisi …) decise di realizzare alcuni posti auto all’aperto in una zona periferica di basso pregio. Piuttosto di rimanere inerte, … mandando a casa i tutti i suoi operari…, in modo sprovveduto agì al motto: “meglio poco che niente”. Egli non sapeva che in economia e nel diritto tributario è: “meglio il “niente” che il “poco””. Il niente, infatti, non è tassato, mentre il poco, una volta rettificato, arriva a toglierti anche quello che non hai mai avuto[2].

Ecco cosa accadde.

Durante la costruzione dei parcheggi, il valore reale di quei posti auto all’aperto, s’aggirava tra i 14.000,00 e 18.000,00 euro l’uno. Per coprire i costi di produzione, il costruttore fu costretto a vendere alcuni posti auto nel 2008. Supponiamo che: i posti venduti furono due (uno di 12 mq a 14.000,00 euro; ed uno di 20 mq a 16.000,00, per un toltale di 30.000,00 euro); e che l’acquirente fu uno (Tizio).

L’Agenzia delle Entrate nel 2009 rettificò entrambi i valori portandoli da 30.000,00 euro a 81.440,00 euro! L’acquirente, a causa della rettifica sulle imposte indirette, si ritrovò un “debito improvviso” di 10.545,50 euro. Una cifra notevole che comportò una maggiorazione dei costi preventivati per l’acquisto più d’un terzo.

Per il venditore, di contro, comportò la rettifica dell’IRPEF del 2007, con le relative sanzioni, per non aver dichiarato un maggior guadagno di 51.440,00 euro!

Anche in questo caso, le tasse reclamarono più di quanto guadagnato dal contribuente. Ecco alcuni esempi di come in Economia, Scienze delle Finanze e Diritto Tributario, il Niente sia meglio del Poco.

Un Sistema Fiscale che nemmeno lo Sceriffo di Nottingham riuscì ad architettare (!).

Torniamo agli effetti citati supra.

Da questi esempi risulta chiaro il primo effetto. L’azione di rettifica influenza in modo innegabile il mercato oggetto del suo controllo. In alcuni casi può paralizzarlo; in altri può determinare la sopravvivenza d’alcune imprese piuttosto che d’altre. Non solo, le stesse contrattazioni non avvengono più come risultanza d’un libero mercato (ovvero dell’incontro tra lettera e denaro). Esse sono influenzate dalle aspettative che le parti (il venditore e l’acquirente) hanno sull’agire d’un terzo soggetto (l’Agenzia delle Entrate). Nessuna persona razionale, a meno che non sia completamente sprovveduta e/o autolesionista, venderebbe un bene per un prezzo minore rispetto, non quello determinato dal mercato ma, quello utilizzato dall’Agenzia per la rettifica. Farlo, condurrebbe agli effetti visti supra.

Il secondo effetto concerne il valore di rettifica applicato e come questo, non sia la mera costatazione di cosa avviene nel mercato ma, sia influenzato dalla stessa azione d’accertamento.

Essendo economicamente dannoso vendere per cifre minori rispetto quelle applicate dall’Agenzia delle Entrate nelle sue rettifiche, il mercato tenderà ad omologarsi a quest’ultime. Ciò comporta che l’azione di rettifica dell’Agenzia co-partecipa alla creazione dei valori venali applicati. Non solo, una volta rettificati alcuni beni (divenuti definitivi gli accertamenti) quest’ultimi sono usati come giustificazione e motivazione per fondare altre rettifiche su beni simili. In questo modo, è persa ogni connessione colla realtà controfattuale del mercato. Le rettifiche finiscono per fondarsi su un’iperrealtà virtuale originata dagli stessi accertamenti. Poco importa che questi diventano definitivi, non poiché accertino alcun valore reale ma, poiché almeno una parte (di solito il compratore) ha trovato “più economico” pagare la maggiore imposta indiretta piuttosto che sostenere un contenzioso legale. Una scelta che preclude al venditore ogni possibile azione d’impugnazione autonoma dell’atto, sebbene ne abbia di motivi.

Mentre lo Sceriffo di Nottingham di tanto in tanto perdeva con Robin Hood, oggi vince sempre.

Che cosa intendo dicendo ciò?

Qualcuno di Voi, letti gli esempi supra, potrebbe aver pensando che, ricorrendo alla Giustizia Tributaria, ogni possibile danno sarebbe stato nullificato.

Tralasciando che ogni procedimento legale ha in se una fortissima alea, nel sostenere ciò non mi riferisco all’esito del Ricorso ma a qualcosa d’altro.

Essendo “prassi” compensare le spese di giudizio, l’annullamento dell’atto impositivo non nullifica i danno causati da esso. Al contribuente restano da pagare: le parcelle dell’avvocato; l’IVA; i contributi unificati; … dei diversi gradi di giudizio.

E’ inutile ricordare come una buona percentuale di questi costi, finiscono nelle “tasche” del Fisco. Paradossalmente allo Stato conviene produrre accertamenti infondati. Nella peggiore ipotesi ci guadagna tutti quei tributi che sono generati come conseguenza del contenzioso legale.

Non a caso, la stragrande maggioranza degli accertamenti è di modico valore (al di sotto dei 20.000,00 euro). Infatti, sono questi i casi dove il Fisco vince sempre. Da una parte, molti contribuenti preferiscono pagare quanto “accertato, non per aver evaso ma, perché questo gli costa meno del sostenere un contenzioso legale! Dall’altra parte, qualora gli atti siano impugnati, il Fisco comunque ci guadagna i tributi derivanti da ciò! In questo modo (soprattutto nel caso in cui sia decisa la compensazione delle spese), il Fisco ci guadagna in ogni caso.

[1] Era un piccolo Forno in difficoltà con un reddito annuo decrescente sui 35.000,00 euro. Un reddito esistente grazie al lavoro non retribuito: dell’imprenditore e di sua moglie.

[2] Infatti, un basso profitto fa scattare: il redditometro; gli studi di settore; il valore venale del bene; una serie di presunzioni e di meccanismi legali; … . Questi alla fine tolgono al cittadino non solo quel poco che ha guadagnato (… sul quale ha pagato regolarmente le imposte…) ma anche quello che non ha mai avuto. In questi casi, exempli gratia, i soli costi per potersi difendere (attraverso un contenzioso legale nei suoi diversi gradi di giudizio) supera la sua capacità economica.